Lo Scrigno di Poltrinone

Circa un anno fa, sotto un portico all’ombra dei 45 gradi della Sardegna ho scritto in un paio d’ore questa simpatica storiella estiva poi pubblicata sul numero di agosto de “La Rivista di Bellinzona”, lo storico mensile periodico bellinzonese con il quale collaboro durante la stagione escursionistica. Mi è sembrata una buona occasione per ripubblicarla, con l’augurio di farvi anche un po’ divertire.

Vi sarete chiesti o vi starete chiedendo dove è finita la mia voglia di scrivere. Ebbene, complice il regolare e costante impegno con i voli in elicottero, lo studio e l’afa opprimente che non mette gran voglia di camminare, il tempo a disposizione per le uscite in montagna mi si è ridotto ad un lumicino e quelle che riesco a concludere sono talmente brevi e fulminee (sfrutto in particolare le ore del mattino) da non permettermi di trovare l’ispirazione cui vado cercando per esternare le mie emozioni.

Abbiate ancora un po’ di pazienza, presto ritornerò con nuove e fresche avventure. Intanto… buona lettura!

 

Viveva un tempo un grande Re, di nome Poltrinone. Regnava nei tre castelli della Turrita che furono da lui posseduti. Durante la bella stagione si rifugiava al fresco per qualche mese sull’alpe che ancora oggi porta il suo nome. Leggenda vuole che in un ramo isolato della Morobbia, una valle proibita e riservata soltanto al Re e al suo seguito personale, giaceva un tesoro che nessuno, eccetto il sovrano in persona, era mai riuscito a vedere. A tal proposito, tra le mura del reame Bellinzonese si udivano echi altisonanti. Tante le storie più o meno bizzarre, per la maggiore si riteneva era fatto di pietre e metalli preziosi estratti dal Buco di Giumello e poi trasportate al maniero lungo quella che fu la “Via dell’Oro”. Tutto filava liscio finché un bel giorno d’estate non giunse nel borgo un misterioso forestiero.

Era un uomo sulla trentina, di bell’aspetto e con le sembianze di un cavaliere. Portava indumenti alquanto bizzarri dai colori accesi e recanti alcune scritture in bell’evidenza, cosa che spinse i curiosi a pensare egli appartenesse ad un fantomatico e remoto casato di Gore-Tex. Calzava stivali voluminosi, anch’essi variopinti e con l’esclusiva suola dal profilo marcato. Aveva sugli occhi due piccoli specchi che erano in grado di fissare la palla infuocata nel cielo per lungo tempo. Portava una sacca ricolma di oggetti mai visti e teneva per mano due strani bastoni che si accorciavano e si allungavano per chissà quale oscuro sortilegio.

Diceva di essere un nobile pioniere dell’alpinismo e voleva raggiungere i confini più remoti della Valle Morobbia nel tentativo di iniziare da lì una lunga cavalcata in cresta verso il Nord. Un vecchio saggio del luogo, allora suggerì lui di partire dal feudo di Daro, salire al Motto d’Arbino e poi continuare all’antico fortilizio celtico in disuso del Sasso Guidà, per meglio poter osservare dall’alto i punti di accesso di tutta la valle. Qualche ora dopo, forte della sua condizione fisica e di innate capacità di orientamento, egli arrivò presso il punto che l’anziano signore aveva indicato. L’istinto, in parte lo stava guidando e dopo una svelta ma attenta analisi del territorio, scese sul fianco della montagna fino a raggiungere il luogo che oggi si chiama Carena, da dove comincerà la sua emozionante avventura.

Poco più avanti sul fondovalle, oltrepassata la barriera di un posto di blocco non custodito, notò un ponte sul fiume e un sentierino svanire nel bosco. Passò sull’altra sponda e seguì fedelmente la traccia. Era un bel sentiero fresco ed ombroso, celato da un fiabesco faggeto. Raggiunse in breve la radura dell’Alpe Pisciarotto e una volta arrivato sul fianco aperto della montagna, a circa 1700m di quota e poco più in alto dell’Alpe Poltrinetto, venne sorpreso da una pattuglia di guardie del Re. I soldati, seppur armati provarono un certo sbigottimento nei confronti di colui che ha osato sfidare il volere del Re e puntando le armi con tono guardingo, lo condussero fino all’Alpe Poltrinone.

Con stupore delle guardie il Re, non appena vide l’uomo arrivare, accennò ad un sorriso. Con gesto di approvazione aprì le braccia e disse: “Benvenuto forestiero. Sei il primo valoroso che alla fine mi abbia mostrato il coraggio a venire quassù e ciò nonostante il mio veto. Apprestati, se lo vorrai, a raggiungere il culmine della montagna che sto indicando, laddove conoscerai la mia più grande ricchezza, la potrai conservare e la proteggerai, in segno della mia eterna riconoscenza.” L’incredulo alpinista si inchinò davanti al Re e lo ringraziò. Si dissetò da uno zampillo d’acqua sorgiva, quindi da un calice di buon vino rosso di uve Merlot proveniente dai vigneti della collina.

L’alpinista riprese la marcia, avventurandosi liberamente tra i pascoli dolci e solivi, puntando verso la cima con grande curiosità. In vetta, una ragazza bellissima dai lunghi capelli biondi e ben curati stava teneramente seduta, intenta a sorvegliare alcune caprette. Rivelando un sorriso dolce e gentile, lei lo guardò con gli occhi lucidi di passione, lui aveva di riflesso aveva capito. Era la figlia segreta del Re, colei che poteva essere data in sposa soltanto al meritevole che avesse avuto l’ardire. Non oro né pietre preziose, dunque era questo il vero, immenso tesoro del Re.

Ben presto quella montagna divenne lo “Scrigno di Poltrinone” e i due ormai innamorati convogliarono a nozze alla corte di Castel Grande. Furono invitati regnanti e vassalli dai più disparati reami del territorio e dichiarati sei giorni e sei notti di festa e baldoria. Fu allora che nel borgo nacque il mito del famoso “Rabadan”, una ricorrenza ancora oggi molto sentita e ben radicata tra i sudditi della Turrita, celebrata ogni anno durante il periodo carnascialesco.

 

 

 

 

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